All’ombra dei ciliegi 2

10 Maggio 2014 By Elena Bottin

Altre due settimane per guardare i fiori dell’arte giapponese, piccoli boccioli che fendono il tempo circolare dell’Oriente per stabilirsi sulla retta linea della coscienza occidentale, travagliata qua e là da barlumi di perché, interrogativi presto risolti nella sacralità di un credo diverso, quasi estraneo, ma profondamente radicato nell’essere uomo. «Sedici anni fa, precisamente nel 1998 – spiega Eleonora Castagna, curatrice del progetto insieme a Kazuhiko Tomita, Beatrice Andreose e Gianni Sandri – l’allora presidente dell’associazione culturale La Medusa Turi Fedele e Kazuhiko Tomita, giovane ma già affermato designer giapponese, hanno deciso di coinvolgere dodici artisti per fare breccia in un’idea troppo tradizionalista dell’arte nipponica, richiamando alla memoria del pubblico emozioni e sentimenti nuovi». Stesso titolo, stessi artisti (sette di loro erano già presenti nel 1998) con l’aggiunta della giovane Kaori Miyayama ma opere diverse per ricordare il breve viaggio che separa la sensibilità artistica, metaforizzata nella forma dei fiori di ciliegio, effimeri ma incredibilmente belli, dalla terra ancora fredda, dalla Morte. «Piccole sculture di materiali vari – spiega Eleonora – installate con cura dall’artista Shoko Yomogizawa, dopo un viaggio che le ha leggermente alterate nella forma, diventano quindi il simbolo di una natura che si fa assenza di futuro, ferita com’è nell’anima dai disastri ambientali causati dalla moderna civiltà». Sono troncati i suoi alberi, la loro crescita è bloccata dalla preoccupazione che l’artista vive per l’economia nucleare su cui si fonda il suo paese. «Queste tensioni – continua Eleonora – sono fragili presenze che nei quadri di Narumi Harashina, maestro nella tecnica incisoria della ‘maniera nera’ – avvolgono umili oggetti quotidiani». E’ sull’osservazione del mondo che ci circonda che si basano le forme evanescenti di Toru Taki, protagonista di un’inconsapevole aggiunta artistica: «La base su cui abbiamo appoggiato una delle ciotole di Taki – sorride la curatrice – è uno specchio, la gente si trova così a vivere l’arte specchiandosi». I giochi geometrici del suoi quadri sono colori che si perdono nello spazio, ombre che danno vita e si confondono nel nulla: lo stesso intento di dissolvenza è procurato dall’opera ‘Le radici del cielo’ di Kaori Miyayama, giovane artista giapponese che ha studiato all’Accademia delle Belle Arti di Brera. Nello spazio vuoto, aperto all’interno di finestre che proiettano piccole impronte leggere, si intravedono legami, piccoli fili rossi che portano l’idea del quadro su una struttura che scende con grazia dal soffitto, lasciando supporre trasparenze suggestive. «Miyayama – commenta Eleonora – ha sviluppato queste abilità in seguito a esposizioni in palazzi storici milanesi: non potendo appendere quadri alle pareti ha deciso di reinventarsi in questo modo, calandosi dall’alto». Anche Matsuyama, da anni a Milano, si è radicato in una visione del tempo occidentale, retta, quasi continua: nei suoi quadri colpiscono i ritmi del colore e della materia che rimandano al suono, lo Shin – On. «All’inaugurazione del 26 aprile – commenta Eleonora – erano presenti quasi tutti gli artisti e la gente intervenuta era tantissima. Ovviamente l’esposizione non comprende tutte le opere d’arte che ci sono pervenute, abbiamo dovuto fare una scelta per motivi di spazio. Una piccola curiosità coinvolge invece le opere di Yasuko Nakanishi: visto il dispiacere che questa selezione ha causato alla signora, abbiamo allestito una piccola stanza – magazzino come se fosse una personale». Affascinata dagli scritti del Buddha, l’artista ha intitolato le sue opere con un chiaro rimando ai suoi insegnamenti: «morte e vita non si distinguono, queste forme, per certi versi affini a quelle create dal movimento Gutai, sono intrise di spiritualità». Il cerchio delle opere di Ryoichi Shigeta, presente in mostra con tre quadri in carta di riso, senza cornice per dare un’impressione di maggiore naturalità, con un tema artistico omogeneo in acrilico, richiama il Mandala, l’unica verità. Contrapposto a queste forme sospese tra sogno ed evasione può essere invece Kenji Kume, artista che si avvale della tecnica della silografia giapponese, con figure messe in risalto dal contorno e dai colori tipici del fumetto. «Con Kume ho condiviso l’esperienza delle proteste a Instanbul – racconta la curatrice – io ero là per via dell’Erasmus e lui lavora ancora adesso in un hotel, in quanto anche rinomato chef». Per quanto la sua arte si ricolleghi al credo shintoista, con ogni mese un’opera dedicata a una forza celeste diversa, semplice, sembra che ci sia di mezzo l’influenza dei manga. «Non c’è un riscontro diretto ma sicuramente l’artista nel corso della sua esistenza ha assorbito influenze diverse. Non è una scelta consapevole». Si chiude così su una realtà trasfigurata la mostra organizzata dall’associazione La Medusa: rinnovo l’invito di andarla a vedere in queste due settimane, merita veramente.

Camilla Bottin

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