Intervista a Giuseppe Pasquali
6 Febbraio 2014Il titolo così condensato (le Quattordici Parole di Hitler inneggianti alla purezza della razza ariana e l’88, il famoso “Heil Hitler”) del titolo ‘Nürnberg Fallout 14/88’ è perfetto anche se foriero di traviamento per un neonazista: la passione per la Storia, celata nella trama, emerge con prepotenza nelle descrizioni dell’atteggiamento degli ufficiali nei confronti della propaganda nazista. Abbinare il Male a Hitler ai suoi seguaci può apparire quasi scontato, meravigliosa invece è la consapevolezza dell’errore che progressivamente fa breccia nel cuore della protagonista. Le dai certezze e a poco a poco gliele togli, il tutto condito da uno stile visionario, sospeso tra passato e presente: raccontaci come è nata la figura del Maggiore Gertrude “Trude” Schmitt e fino a che punto può diventare reale la sua parabola dall’odio all’amore.
NF 14/88 non presenta un modello intellettuale o letterario ben definito, bensì trova le sue origini in suggestioni di ogni genere: dalla cultura, dalla mitologia, passando per il teatro lirico fino ad arrivare all’animazione giapponese. La trama nasce principalmente dal mio amore per il mito nordico, la filosofia nietzscheana e le opere di Wagner, in particolar modo il ciclo dei Nibelunghi. Diversi invece gli influssi provenienti da pellicole come “La Caduta”, “Hitler: the Rise of Evil” e “L’Angelo Azzurro”. A livello letterario non posso non citare lo stupendo “La Svastica sul Sole” di P. K. Dick, capostipite e punto più alto delle distopie con protagonista l’iconografia nazionalsocialista e “La Strada” di Cormac McCarthy nel suo immaginare un’umanità piegata dall’olocausto nucleare.
Nella figura dei mostruosi Jotnar c’è anche una citazione volontaria di un racconto di Ballard (“Il Gigante Annegato”, che dà anche il titolo all’omonima antologia). Infine, per inquadrare un nemico inarrestabile in grado di condurre l’umanità sull’orlo dell’estinzione, mi sono rifatto al manga (ora divenuto anche un anime) “Shingeki no Kyojin” ( Attack on Titan – “L’Attacco dei Giganti” in italiano).
Il romanzo, attraverso svariate metafore e allegorie, cerca di sottolineare l’importanza dell’amore e di quanto questo sia radicato nel cuore di ogni individuo, anche il più crudele. In un mondo distopico e terrificante incontriamo Gertrude Schmitt, donna crudele e senza cuore, educata, sin dall’infanzia all’odio e alla guerra. Tuttavia un cammino doloroso, fatto di tragedie, abissi, demoni personali e follia sta per sconvolgere l’esistenza di Trude, portandola a mettere in dubbio tutto quello in cui ha sempre creduto ciecamente e a porsi una domanda alla quale non riesce a dare risposta. Cosa può salvare gli uomini dal fascino delle tenebre? Trude, come un po’ tutti i personaggi che creo per le mie storie, è un archetipo dei difetti umani, un simulacro narrativo creato per rivestire di carne un concetto relativo alla natura umana. In realtà NF 14/88 è un romanzo d’amore dove non si parla d’amore, bensì di odio e crudeltà, poiché solo attraverso questo filtro possiamo davvero riscoprire l’importanza di un sentimento che, da troppo tempo, soprattutto in ambito narrativo, è relegato a semplice pulsione, quasi sempre adolescenziale e fine a sé stessa. In questo senso Trude ci mostra, attraverso la sua dolorosa parabola, come l’amore sia quel sentimento in grado di cambiare la vita di un individuo, di mutarlo nel profondo. Quindi non un anti-eroina, non una villain che si redime alla fine bensì una semplicissima quanto fragile donna che compie un cammino a ritroso alla disperata ricerca della sua perduta umanità. La scelta di un personaggio femminile, al di là di semplici considerazioni di carattere estetico e di preferenze personali, nasce, in primis, dalla mia mania per le sfide in ambito di scrittura. Troppo spesso assistiamo a scrittori uomini che riversano sulle pagine le loro ambizioni da macho ipertrofico così come autrici che proiettano sulla carta le proprie alter-ego, quasi sempre alla ricerca di un amore da favola. Scrivere di donne mi costringe ad indossare i loro panni, a pensare come loro, a cercare di capire il mondo attraverso gli schemi mentali dell’essere femminile. Mi piace dare tridimensionalità alle donne che creo, senza mistificare o strumentalizzare, come spesso succede, la figura femminile.
Scivoliamo nelle atmosfere steampunk, di cui sei già esperto (hai scritto un racconto pubblicato nell’antologia “Steampunk. Vapore italico”): anche se, acronisticamente parlando, tu ci proietti nel futuro basandoti sul passato, sei in grado di farci conoscere la potenza visiva di una distopia che avrebbe potuto realizzarsi. Qualche considerazione su questi due generi (steampunk e distopia)?
Se mi sarà concesso il lusso di invecchiare e, qualcuno, in quel futuro ancora coperto dalle nebbie del tempo, mi chiederà mai di descrivere l’attuale epoca che stiamo vivendo, non avrò molto da penare.
Gli anni Zero, quelli del mito della globalizzazione e, a seguire, quelli della grande congiuntura economica mondiale, li riassumerò con una semplice frase che vuole anche essere un augurio per il futuro.
“Anni in cui andava di moda il catastrofismo.”
Voglio crederci e, sopratutto, voglio davvero sperare che sia così, per quanto la mia visione del mondo non mi permetta di essere totalmente sincero con me stesso nell’asserire tale frase.
Quelli che viviamo, infatti, sono gli anni della distopia che, dalla teoria, si sta manifestando nella quotidianità.
Viviamo in bilico, sospesi: da una parte il disfattismo urlato nelle piazze come sul web da demagoghi e rinnovati nazionalismi mentre, dall’altra, assistiamo alla miopia di classe dirigenti sempre più disinteressate al bene comune, spesso abbarbicate a istituzioni mondiali prive di reali capacità decisionali e d’azione.
L’Europa, alla luce di questa analisi, incarna alla perfezione questa dicotomia, un frattura destinata ad allargarsi, trascinando con se popoli e sistemi economici.
In questo scenario che potremmo definire indecidibile, usando il vocabolario dei filosofi Megarici, si deve innestare il lavoro degli intellettuali e, sopratutto degli artisti.
Abbiamo, ora più che mai, bisogno di avanguardie che si dedichino ad operare sulla linea labile, quasi impercettibile, che separa l’oggi dal domani, nuove forme d’arte che si liberino dalle catene del consumismo e ritornino a riflettere prima di intrattenere.
Sospesi tra ottimismo e disfattismo, tra modernità e neo-tribalismi, diventa necessario squarciare il velo, ormai divenuto cappa insostenibile, del positivismo e tornare ad indagare l’irrazionale, l’insoluto e il metafisico.
Non una fuga dal reale ma reinterpretazione di quello che è reale e, sopratutto, di ciò che è destinato a diventare tale.
Ipotizzare quella moda di cui sopra accennavo, il catastrofismo appunto, e non avere timore alcuno di teorizzarlo.
Se l’isola di Utopia è irraggiungibile per gli uomini, la distopia ci ha già raggiunto, lì dove un assurdo e intollerabile velo di perbenismo non ci permette di intravederla.
La non-utopia è spesso la negazione del sogno, o per meglio dire, la sua fallimentare concretizzazione.
Quello della distopia è un luogo, per sua stessa definizione, indesiderabile, un posto quasi sempre avvolto in una spirale di terrore fisico e psichico.
Universi, mondi, città finzionali, paesaggi archetipici distorti da disastri ambientali, indotti o imprevisti, dall’avidità di potere dell’Uomo, dalla perdita del senso di misura e dalla ricerca di una risposta esistenziale nel totalitarismo.
In questo senso, la distopia può essere intesa come collasso di un futuro (indipendentemente dalle forme che questo può assumere), una speculazione che presenta i contorni del monito, di un traguardo che non deve in alcun modo essere raggiunto.
Storie in cui si assiste alla perdita di redini morali, una proiezione vivida della negazione di ogni valore sociale e civile fino a giungere alla dissoluzione dell’individualismo a favore della massificazione fisica, mentale e psicologica.
Il mezzo più adatto su cui si muove il genere è la spietata evoluzione (spesso involuzione rispetto alla morale) e agli strascichi della de-umanizzazione, dalla negazione del valore della vita umana fino a giungere alla ricerca del divino nel transumanesimo, tutti leit-motiv fondanti.
Tuttavia, il tema dell’apocalisse, si ritaglia un ruolo preponderante nella narrazione distopica.
Nella maggior parte dei casi, tale contesto si realizza in un disastro che ha per causa stessa l’incapacità dell’Uomo di soffocare i suoi viscerali istinti.
Abbiamo quindi la tentazione (per fortuna, ancora illusione, visto il principio di Clausewitz) di abbracciare la via di una rapida guerra nucleare.
Una tecnologia che superi l’Uomo nei suoi tempi e che lo condanna a vivere sulle spalle dei suoi stessi crimini.
Una frattura, quella tra la Terra e l’umanità, insanabile.
Non esiste una vera temporalità per la distopia che è spesso una condizione valutata come congettura orientata al futuro (si pensi solo al cyberpunk) ma le cui radici possono affondare in un passato reinterpretato.
Abbiamo quindi realtà che vanno a pescare a piene mani da un background del tutto fittizio e, spesso, sovrascritto ad un passato allegorico.
Qui subentra il tema portante di questo genere: la condanna ad ogni forma di totalitarismo, critica vista sopratutto in chiave etica e sociale.
Un rifiuto, spesso caotico, ad ogni forma di oligarchia.
Futuri tetri e inquinati in cui la società è puntellata a fatica dal potere tentacolare di grandi corporazioni o gruppi di potere, strutture completamente disinteressate al perseguimento di un bene comune e votate alla sottomissione delle nuove caste non dichiarate che si vengono a creare nei calderoni ribollenti della disobbedienza civile.
Potere della distopia è anche quello di astrarre il lettore da una macrorealtà per condurlo in una microrealtà che, ai fini della narrazione, diventa fulcro dell’intera struttura.
E’ poi di cruciale importanza sottolineare come i pattern narrativi della distopia non prevedano quasi mai una conclusione netta o un finale “da favola”.
L’oscurità, la disperazione e il dramma che procedono il climax della storia finiscono con l’inghiottire il protagonista, sacrificandolo al sistema malato oppure, nel migliore dei casi, innalzandolo come un nuovo quanto enigmatico messia (si pensi solo alle divinità psichedeliche degli scritti di P.K. Dick) che getterà le basi per un mondo nuovo.
Tuttavia, il lettore, non avrà mai la certezza che questo si compirà.
Qui sta il senso ultimo e la chiave di lettura del genere distopico: mostrarci quello che potrebbe essere senza mai suggerirci cosa fare per scongiurarlo.
Sta a noi uomini addentrarci con coraggio e fiducia nelle nebbie del tempo, alla ricerca di un futuro diverso, forse migliore.
All’incontro del 16 febbraio a Este (PD) dal titolo “Il Fosso di Helm, i labili confini tra fantasy, fantascienza e distopia” ti confronterai con un maestro della fantascienza e uno studioso della filosofia del fantastico. Come paladino di un genere letterario ancora poco conosciuto ti fai propugnatore di alcune innovazioni all’interno del genere fantasy, ormai un settore di nicchia all’interno dell’editoria libraria. Siamo stufi della solita minestra commerciale, secondo te cosa ci vorrebbe per svegliare i lettori dal torpore in cui sono caduti?
L’immaginazione moderna sembra essere oppressa da quella che potremmo definire una losca tecnocrazia orwelliana.
Gli ultimi fuochi dello strutturalismo inceneriscono le ormai rade foreste vergini del pensiero puro. La modernità pretende di misurare empiricamente ciò che è teoretico per natura.
In letteratura, qualcuno vorrebbe insegnarci cos’è l’immaginazione, darle una dimensione finita, una collocazione ben precise.
Misurarla, quantificarla, individuarne i meccanismi, cercarne i limiti e, frustrati dall’impossibilità di trovarli, delimitarla con gli steccati della psicoanalisi e con il filo spinato del preconcetto.
Strutturare le dimensioni dell’immaginazione, darle un oggetto per poi decostruirla e sacrificarla al relativismo dilagante.
Per fortuna, come ricorda Calvino in una sua celebre affermazione “la fantasia è un luogo in cui ci piove dentro”.
Così, nonostante gli scherani del realismo e i lanzichenecchi del tecnicismo si affannino a mettere un tetto su questo palazzo pericolante, le tempeste del pensiero aprono nuove voragini, portando alla luce zone inesplorate.
Quindi, con buona pace di questi manovali frustrati, l’immaginazione rimane un luogo (sempre che possa essere considerata in questi termini) che trascende ogni concetto di finitezza.
Tanto, in questi anni, è stato detto sul declino della narrativa fantastica ma ben poco, a livello intellettuale, è stato fatto.
Non c’è un progetto culturale di fondo, quasi più nessuno, tra scrittori e editor, partecipa al dibattito politico e civile sul nostro Paese e sulla società moderna.
La narrativa fantastica vive in un esilio che si è auto-inflitta nel nome del nuovo totalitarismo che domina la modernità: la mediocrità.
Un meccanismo piuttosto sofisticato nella sua crudeltà mentale che, attraverso li processi decostruttivi volti a rendere innocuo l’esprit libre dell’immaginazione, sta sradicando ogni possibilità di avanguardia artistica.
I farisei infestano il tempio del pensiero autonomo mentre il vitello d’oro del consumismo è il nuovo idolo della moderna editoria.
Assistiamo quindi all’interminabile processione del politically correct, del perbenismo endemico che fa coppia con il torbido e il grandguignolesco, dualismo che rappresenta alla perfezione lo scrittore fantastico nella modernità.
Un vigliacco Dottor Jekyll che si trasforma in Mister Hyde per manifestare la cupidigia che si impossessa dell’Arte: il vendere, il consumare, la svendita dell’impegno intellettuale, pur di far valere il proprio peso nelle strutture di potere a cui, qualche illuso, da il nome improprio di “successo”.
Non è più importante pensare in libertà; bisogna ideare solo quello che risulta utile, spendibile, accettabile dalla dittatura del pensiero comune e, sopratutto, dal peggiore dei postriboli, ovvero il cosiddetto mercato.
Qui il peccato originale della narrativa fantastica, la deriva che l’ha resa un genere svilito, succube, disarmato.
Un genere cementificato nel mito del nulla, a volte in cattedrali costruite nel deserto, altre in fabbriche dell’immaginazione in cui scrittori-automi si affidano al taylorismo per fabbricare libri e storie.
Tuttavia, se l’arte narrativa e immaginativa sono divenute macchine disumane per sogni di plastica, rigorosamente innocui e sterilizzati, regolate dall’eterodossia delirante del consumismo, vi è la necessità di definirsi neoluddisti.
Quando ristrutturare non è possibile, è necessario ricostruire dalle fondamenta.
E per fare ciò è fondamentale, innanzitutto, radere al suolo.
Distruggere, senza distinzioni di sorta, i mostruosi Moloch senza volto che tengono in cattività l’intero genere.
Il primo passo per dare vita ad una nuova avanguardia artistica in ambito di narrativa fantastica è cedere alla smania nichilista, abbattendo, senza distinzioni di sorta, qualsivoglia limite o preconcetto artistico.
Ergersi a baluardo contro qualsiasi deriva dettata dalle logiche insane del meccanismo produttivo, dando vita ad una necessaria distruzione creatrice.
Un neoluddismo appunto, che distrugga le macchine del pensiero, ridonando a questo la libertà che gli appartiene per definizione.
Camilla Bottin