Intervista a Gianfranco Manfredi

26 Maggio 2014 By Elena Bottin

Hai fatto parte della redazione del ‘Re Nudo’, manifesto della cultura underground degli anni Settanta. In ‘Magia Rossa’, il tuo primo romanzo, recuperi gli Scapigliati, artisti che negli anni Sessanta dell’Ottocento erano animati da uno spirito di ribellione nei confronti della cultura tradizionale e del buonsenso borghese. In ‘La freccia verde’, pubblicata da poco da Mondadori, ti piace immaginare un novello Robin Hood che combatte per la libertà. La lista è lunga, ma sicuramente da una lettura attenta delle tue opere, si evince che ti piacciono i personaggi borderline, sempre ai margini della cultura ufficiale, dotati di una volontà di rivalsa che non si arresterebbe di fronte a nulla.
Quanto le tue esperienze giovanili hanno influito nella creazione di questo percorso morale che spesso e volentieri passa per la Storia?
Non hanno influito soltanto le mie esperienze giovanili. Definirle soltanto giovanili sarebbe improprio. Affondano nella storia della mia famiglia. Per un verso di cultura protestante, per un altro verso anarco-socialista. Mio nonno paterno finì in carcere da studente, a sedici anni, per aver partecipato alla rivolta del pane del 1898, eventi di cui ho parlato in modo fantastico in Magia Rossa e in modo assai più storico nel romanzo Il Piccolo Diavolo Nero (Marco Tropea editore). Mio padre è stato per sei anni prigioniero in un POW inglese, in Kenya, sotto il Kilimanjaro, contribuendo a costruire con gli altri prigionieri il Masai Mara. Era pittore. Io sono cresciuto circondato da quadri e disegni di ambientazione africana. Mia madre suonava il piano e adorava l’Inghilterra dove era stata da ragazza. I primi viaggi fuori dall’Italia li ho fatti in Inghilterra nei primissimi anni settanta. Era l’Inghilterra dell’immediato post-Beatles. L’Inghilterra del grande raduno pop dell’isola di Wight. Partito a quella volta con un folto gruppo di amici di tutte le nazionalità, non ci arrivammo mai. Ospitati da un ragazzo inglese con la casa lasciata libera dai genitori, facemmo tre giorni di festa per conto nostro. Insomma… nella mia propensione alla narrativa avventurosa, questo passato familiare e queste attitudini esplorative hanno inciso moltissimo. Sono fatto così come persona, prima che come scrittore.

Aspettiamo con trepidazione l’uscita della graphic novel ‘Coney Island’: il genere, una storia di gangster con implicazioni paranormali, è inedito. Adori il mondo dei Luna Park, sei mai stato a Coney Island? Quali sono state le suggestioni che ti hanno spinto a ideare la storia?
Mi hanno sempre affascinato il mondo del circo e quello dei lunapark. Lì è nata l’industria del divertimento di massa. Oggi è difficile rievocare quelle esperienze e quegli ambienti, nei quali era impossibile distinguere tra lo sfarzo e l’estrema povertà. A Coney Island non sono mai stato e non vi va di andarci perché oggi non è rimasto nulla di quel periodo a suo modo epico. Credo che Coney Island sia oggi uno dei posti più tristi e disperanti del mondo. Dunque potevo rievocarlo soltanto in modo fantastico, con molti omaggi al cinema di quegli anni, cioè il cinema fatto da registi e interpreti (Browning e Lon Chaney, Chaplin, Keaton e Lloyd) che avevano cominciato proprio con il circo e i parchi di divertimenti. Perché, mi sono chiesto, questo mondo non è stato se non molto di rado associato a quello dei gangster, assolutamente contemporaneo e con collegamenti significativi? Lo stimolo a questo tipo di racconto me lo ha dato, in parte, la serie TV Carnivale, una delle più belle degli ultimi anni, a mio avviso. Però ho scelto un diverso ambiente (il parco stanziale, non itinerante) e diversi punti di vista (quelli dei vari personaggi , ciascuno dei quali vive e racconta in prima persona la stessa storia a modo suo: una giovane flapper, un investigatore manesco, un motociclista spaccone, un mago da palcoscenico, nel contesto di una folla di gangster inventati e storici, come Al Capone che iniziò la sua carriera criminale proprio a Coney Island.

Il legame che ti lega alla casa editrice Gargoyle è forte, con loro hai pubblicato quattro romanzi (Ho freddo, Tecniche di resurrezione, Ultimi vampiri, Magia Rossa). In Italia il filone gotico/horror è poco sviluppato, cosa ne pensi del genere? Come ti sei avvicinato all’universo fantastico?
Il legame con la Gargoyle era più esattamente un legame con il suo creatore Paolo De Crescenzo, persona cui mi univa una profonda sintonia. Forse non avrei ripreso a scrivere romanzi impegnativi senza la sua sollecitazione. Ormai scrivevo fumetti a ritmo continuo, tutti i giorni, sfornando migliaia di pagine. La mia fantasia e la mia grafomania si sfogavano lì. Ma la grande libertà dell’extra format che si ha con un romanzo me l’ha fatta riscoprire Paolo. Di horror eravamo appassionati entrambi da sempre e soffrivamo del fatto che in Italia venisse considerata ancora letteratura minore. Un paradosso, dato che il fondatore e il padre del gotico internazionale è stato Dante Alighieri, il cui busto campeggia fuori dalla più importante biblioteca di Providence, Rhode Island, città in cui Edgar Allan Poe si fece conoscere come poeta e che diede i natali a Lovecraft. Se poi pensiamo che i capolavori del gotico inglese sono tutti ambientati in Italia, se ne può concludere che il nostro ambiente culturale è del tutto inconsapevole di cosa ha rappresentato l’Italia nel mondo, quell’affascinante Italia Oscura che tuttora la cultura accademica si preoccupa di mantenere oscura.

Camilla Bottin