Il servitore di due padroni al Teatro Verdi
6 Dicembre 2013Il regista Antonio Latella, con il suo “Servitore di due padroni” riscritto (o meglio completamente risemantizzato) dal drammaturgo Ken Ponzio, vuole confrontarsi con il passato, con il mitico Arlecchino creato da Strehler ancora così fulgido nella tradizione teatrale, ma anche con il presente, con la possibilità di svelare la menzogna: non lo fa attraverso un impianto classico ma con spunti metateatrali, con un Truffaldino senza losanghe, interamente vestito di bianco, come la luce che al suo interno contiene tutti i colori. E’ lui il mentitore e proprio in quanto tale rappresenta una sorta di finzione legata al Teatro: chi mente svela la sua maschera e copre il Vuoto, rappresentato efficacemente nella seconda parte da una scenografia progressivamente decostruita dagli attori, arredo per arredo. Non ci possiamo orientare in un Goldoni oscuro senza le didascalie di Brighella, interpretato da un trafelato Massimiliano Speziani che conferisce continuità al dramma: telefono in mano, il proprietario dell’angosciante hotel di provincia, corre di qua e di là per chiamare le pause, introdurre le entrate e sancire gli atti da compiere. E’ così pop quella televisione che nell’angolo ricrea la tranquillità borghese: l’arte contemporanea irrompe nell’illuminazione placida che crea un effetto statico alla messinscena, con una pastiche fitta anche nel vestiario che mescola l’abbigliamento anni Cinquanta a quello del Settecento. Sono parrucche che rivelano l’ambiguità dei personaggi, la stessa Beatrice, interpretata da un’angosciante Federica Fracassa, è mezzo uomo e mezza donna: la stranezza dei rapporti sessuali spesso espliciti non nasconde la menzogna, nessuno piange il fratello morto, le porte sbattono e il dolore non trova sfogo. E’ un’anoressia del corpo che si rifiuta di nutrirsi, il paradosso sta nel tornare alla tradizione nella seconda parte del dramma, con lazzi e vezzi tipici del Goldoni, come una convenzione che vuole ricostruirsi per rassicurare. Se veramente Arlecchino è il nostro Amleto, come dice Latella, non si poteva non incrociarlo nel percorso teatrale: tre ore quasi di specchietto per le allodole, un delirio incestuoso che pervade la mente dei presenti, in quel dramma di passaggio simboleggiato dalla transitorietà degli elementi. Straniante anche il linguaggio, con quel misto di dialetti e italiano così differenziato per ogni personaggio: solo Arlecchino parla italiano, ma inciampa vistosamente nelle parole, si contorce, vive della sua mimica. In questa sintesi della finzionalità della Vita, Ponzio ha selezionato le parole con cura perchè sa che gli attori di Latella, in media quarantenni, sono servitori di un padrone solo, il Teatro stesso.
Camilla Bottin