Dia/cronie di Marta Fontana

15 Ottobre 2014

Al “concretismo” di Marta che secondo il critico Sileno Salvagnini avvicina materiali di “contenuto completamente diverso”, non mancano l’aspetto ironico e la citazione colta. Il concetto di “trasformazione”, desunto per osmosi dalle Metamorfosi ovidiane, parte da piccole immagini plastificate poi assemblate a parete a formare un quadro che, tra le foglioline d’alloro di dantesca memoria, è costituito da “tessere” di memoria, stralci di ricordi, materiali casuali: la stessa cornice in muratura è parte integrante del luogo, diventa un tutt’uno con il concetto superiore di “farfalla” dopo lo stadio intermedio che prevede il “bozzolo” della sostanza, privo ancora di contenuto. Vecchi fogli modificati dai sali di potassio diventano “lavagne interattive” su cui sublimare la propria sensibilità: Marta Fontana, ricucendo, tra le altre, la storia di Dafne, lavora molto sui simbolismi ma non esclude da sé un colorismo inedito, dovuto a esperimenti attenti alla divisione dei colori, articolando la sua opera in una scansione quasi geometrica di nero, bianco, giallo e rosso. “E’ il mio modo – commenta l’artista – di entrare dentro al lavoro e scoprire il nocciolo”. Partendo da una tecnica che possiamo definire “mista” visto che non esita a mescolare tra di loro colori acrilici, carta, pastelli all’olio, plastificazioni, terre naturali e materiali “ready-made”, Marta lavora soprattutto sulla “sperimentazione”, su una “commistione di tanti elementi” quasi impura ma foriera di accostamenti inediti. “Mi sembra di parlare per immagini – spiega – mi sento un’alchimista, io vi faccio vedere una sorta di verità celandola, a una narrazione definita preferisco la percezione di un’opera libera, affinché l’interiorità possa farla sua come meglio crede”. In passato Marta si è dedicata all’approfondimento dei testi-oggetto, la cui forma doveva veicolare in maniera permanente il contenuto: “mi piace la tridimensione – commenta – per me le opere pittoriche devono interagire con la parete o con il pavimento, essere una sorta di installazione aperta a tutti”. Nella sua nuova residenza, l’isola di San Pietro a sud di Cagliari, l’artista ha trovato sfogo alle sue riflessioni sulle “ambivalenze visive”: è un’altra Sardegna, scura, lontana dagli stereotipi turistici, ricca di materiale, di bitume. E’ la crisi delle fabbriche e degli operai che rimanda al bitume: recuperato dal tetto di una palestra crollata, il materiale simboleggia la negligenza nella costruzione e quindi il fallimento dell’uomo. Non mancano poi proiezioni su parete di forme geometriche terresti e materiali compressi dentro sacche di liquido: sono “dia/cronie”, espressioni mistiche di creatività.

Camilla Bottin

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