
Il tebbirile intanchesimo di Carlo Sperduti
7 Maggio 2014“Un tebbirile intanchesimo e altri racconti” (Gorilla Sapiens Edizioni, 2013) di Carlo Sperduti, anagramma anagrafico di Loris D. Crepatu o di Dr. Luce Spirato o ancora di Ciro Del Raptus, è come il famoso fusillo del racconto omonimo, non sarà mai lì con te: è proprio la non presenza della linearità verbale a creare effetti collaterali. «Sarai sopraffatto dallo sgomento. Tratterrai i lamenti che ti premeranno in gola per uscire e ti ritirerai sul letto, pian piano», immerso nella lettura: sono forse i postumi di una sbronza o siamo in presenza della magia delle parole? A detta di Giacomo, tra un bacio sul collo e sulla fronte e la voglia di fare l’amore, «ci starai bene» su quel materasso fatto di giochi linguistici. «Non me l’aspettavo» dice la protagonista, per lei è una sorpresa: Carlo Sperduti scrive come se avesse paura dell’horror vacui, con «pochi centimetri» tra lui e lo schermo del pc, cerca di assorbire tutto lo spazio vitale dell’italiano, quell’idioma italico parlato a volte da «un idiota italico». Usa solo arredi d’arredamento Ikea, sono molto sensibili: Bertil, la sedia, mira di proflusioni sonore comunemente chiamate peti (ad opera di sconosciuti avventori), è una «principessina viziata», in attesa del suo Bjorkudden, un tavolo alto e slanciato. Su di esso possiamo immaginare di servire una cena, «nonostante Eleonora», disturbata da un attacco di tosse: esso «penetra nelle intime sfere della tranquillità per destabilizzarla», peggio di un attacco terroristico. Eppure, «che ci vuoi fare, scappa»!
Carlo sa come trattare con noi, ci fa una «faccia di scusa, magari un sorriso imbarazzato» per il suo strampalato modo di scrivere: in realtà ci ha già avvinto nelle spire della letteratura, nelle spire della letteratura con le sue ripetizioni inutili. E’ come il nano seduto del racconto omonimo, aspetta solo la domanda giusta per rivelarsi agli altri: la lettura, quasi dislessica, del brano che dà il titolo al romanzo, in realtà è ingannevole. E’ autoparodia.
Rivolgiamo ora qualche domanda all’autore:
Ti auguri mai che qualche idiota italico nel momento in cui sviscera parole storpie nella forma dell’idioma italico sia afflitto da lalofobia, ovvero dalla paura di parlare? Qual è il tuo rapporto con gli errori? Come fai a conservare la tua ricchezza verbale?
Non nego che sarebbe utile all’idiota italico sperimentare un attacco di lalofobia, ogni tanto, ma se la cosa divenisse permanente mi toglierebbe un bel po’ di divertimento, a dirla tutta. Con gli errori ho un ottimo rapporti. Per conservare la ricchezza verbale bisogna metterla nel surgelatore.
“Fermati o spariamo” e così sparirono. Ti diletti a pensare giochi di parole, quando ti vengono? Devi sforzarti o sono assolutamente naturali?
Molto di ciò che ho letto e leggo è intriso di giochi linguistici, logici, strutturali. Di conseguenza tendo a quello. Non posso dire che “mi vengano” – me li vado quasi sempre a cercare – né che sia del tutto “naturale”, se con ciò s’intende spontaneo, perché con un gioco di parole il più delle volte si forza la lingua – e quindi il pensiero – a percorrere strade inconsuete, o si scopre un punto debole, un’ambiguità, un’approssimazione della lingua stessa – l’italiano, come le altre lingue e in quanto convenzione, non è perfetto né perfettamente funzionante – da sfruttare a fini umoristici o surreali o stranianti o secondi. Per me conta molto l’allenamento: a lungo andare ho imparato a frequentare diverse logiche e a centrare il gioco, a volte, più facilmente, ma ad abbassare la guardia rischio di cadere nella banalità – mi capita spesso, per esempio con il giochino dell’ottimo rapporti con gli errori nella risposta precedente – o nella ripetizione inefficace – ce ne sono anche di molto efficaci, e mi piacciono tantissimo, e mi piacciono tantissimo, ma non è questo il caso. Rispondendo direttamente alla domanda, devo sforzarmi, perché il punto per me è proprio quello: esercitarsi nella ricerca di alternative, di potenziali modi altri di scrivere e pensare.
Scrivere un racconto assolutamente “dislessico” non è semplice: frequenti circoli letterari dediti alla sperimentazione linguistica, quanto questi ti hanno aiutato nella stesura di alcuni racconti?
Cerco quasi sempre di inventare un modo di scrivere o una struttura nei quali quale calare una storia o un aneddoto. Poche volte procedo all’inverso. Il confronto con altre persone che scrivono, per esempio attraverso l’esperienza del Cantiere di Letteratura Notturna a Roma, mi dà stimoli in questo senso: da circa tre anni ci diamo delle “direttive”, ogni mese diverse, per scrivere racconti brevi, e poi ci diamo dei suggerimenti a vicenda. Con questo modo di fare sia io che gli altri abbiamo scritto cose che altrimenti, credo, non ci sarebbero mai venute in mente. Anche in questo caso, la possibilità di mantenermi in allenamento mi aiuta nell’ideazione di racconti più personali.
Non di rado le due cose coincidono: alcuni testi di Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi vengono proprio dal Cantiere di Letteratura Notturna.
Camilla Bottin