Melampus
7 Aprile 2015Il duo romagnolo dei Melampus (Francesca “Billy” Pizzo e Angelo “Gelo” Casarrubia) debutta con un Ep autoprodotto che sfoggia il blues-rock mefitico e selvatico di “15 Feet”, un po’ epigonico di Kills e PJ Harvey, ma con un dono tutto personale per il contrasto tagliente (il ramalama da riot grrl decrepita di “372”). Quindi il duo svariona verso qualcosa di ben più atmosferico: i rosari slowcore di chitarra di “Thirst”, all’unisono con le intonazioni sfumate della voce, una Nico appena più giovane, e soprattutto il tour de force di “Double Room” (dieci minuti), in cui una lunghissima introduzione di pattern di voci in loop e rintocchi diafani della chitarra avvia un’altrettanto estesa ode sepolcrale sottolineata da piccole fitte di chitarra e batteria. La loro è una sorta di new wave artigianale, ma che lascia respirare le strutture (acquisendo così, direttamente o meno, un certo spessore).
Tutto ciò è solo il preludio del poemetto gotico di “Ode Road”, loro primo disco lungo. Il cerimoniale inizia con “Freedom Day”, dei Low fronteggiati da Siouxsie Sioux, e raggiunge un primo acuto con la commistione di registri noir, slowcore e gotici di “The Path”, avviluppata in una gelida atmosfera. Lo shock arriva invece con “Fall”, in cui una finezza di noise-pop incalzante si rarefa in austere armonie folkish a più voci. Così i crepitii lontani di “Thirst” echeggiano la chitarra e i sospiri apatici della cantante, fino a farsi muto urlo che cerca di sfondare un denso muro di distorsione.
Dopo “Introduction”, interludio di bisbigli, note riverberate di piano e gorgheggi liberi (un autentico numero d’avanguardia), il duo scolpisce la breve “Dots”, in cui dominano le tastiere (non meno potenti), a sostenere una coltre armonica stregata sopra una batteria tribaloide. “Walk With Me” è la giusta conclusione, un brano costruito virtualmente di soli loop “concertanti” (batteria, glockenspiel, vocalizzi, persino le stesse liriche roteano sempre su sé stesse), un canto per automi sconsolati senza scintille né emozioni residue, che pian piano si confonde e implode nel suo stesso tintinnio.
Scritto e musicato da Pizzo (voce, chitarra, tastiere, percussioni, anche artwork) e Casarrubia (batteria ed effetti), con interventi di Gabriele Giampichetti ed Emanuele Baratto; escluse le sfocature – l’interlocutoria “Joel” e la nuova versione di “Double Room”, più compiacente – è un breve epitaffio che merita attenzione anche solo per la grazia algida, ma pure per una felice coerenza nelle trovate, un cuore impavido per la rivivificazione di alcuni generi demodé. Più che di liturgia occidentale, le canzoni sono spesso cariche di un senso di mantra e raga che – nel rock italico – non si sentiva da eoni. Il testo di “Joel” è un versetto tratto dall’Antico Testamento (Libro di Gioele).
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