Le parole nel Dedalus

3 Giugno 2019

LE PAROLE NEL DEDALUS
BERGONZONI, TERRINONI E PEDONE IN AULA MAGNA

«Quando abbiamo iniziato il lavoro su Finnegans Wake – scrissero Enrico Terrinoni e Fabio Pedone in articolo pubblicato su Tuttolibri de La Stampa nel gennaio 2017 – ci siamo trovati di fronte un unicorno dei boschi narrativi, il più imprendibile e affascinante degli organismi verbali, composto con l’idioma caleidoscopico di un Sognatore misterioso nella cui mente va in scena, «riraccontata», la storia umana. Ricco di allusioni e significati disposti con pazienza da Joyce in ogni piega del testo. (…) Impossibile è sì quel che non si può fare, ma anche quel che non s’è ancora fatto. Missione ancora più importante rispetto a un libro come Finnegans Wake, che per dirla con Beckett «non riguarda qualcosa: è quel qualcosa». Tradurre il Wake non è solo reinventare una lingua, ma andare alle radici, storiche e mitiche, dell’atto linguistico».

«Ho incontrato a Dublino – ha detto Alessandro Bergonzoni intervistato a febbraio da Repubblica – Fabio Pedone ed Enrico Terrinoni, traduttori del “Finnegans Wake” di James Joyce, mi hanno detto che il mio libro “Non ardo dal desiderio di diventare uomo finché posso essere anche donna bambino animale o cosa” edito da Bompiani potrebbe essere una sorta di “Finnegans Wake” italiano, per una sorta di comune intraducibilità».

Martedì 4 giugno alle ore 17.00 in Aula Magna di Palazzo Bo, via VIII febbaio 2 a Padova, si terrà l’incontro della rassegna BoCulture del palinsesto Universa 2019 con l’artista, attore, autore, scrittore Alessandro Bergonzoni, in dialogo con Enrico Terrinoni e Fabio Pedone. È un dialogo sull’invenzione e sull’intenzione del verbo, e al contempo uno scambio linguistico all’insegna dell’ambizione di travalicare i confini della comunicazione, alla ricerca di una lingua infinita come quella che Joyce, nella sua ultima opera, scelse di immortalare.

L’incontro tra uno dei maestri della lingua italiana, il grande inventore di parole Alessandro Bergonzoni, e i due traduttori italiani del Finnegans Wake di Joyce, è l’occasione per riflettere sulle mille metamorfosi del linguaggio.

Nel Finnegans Wake, opera finale e definitiva di James Joyce, esiste una parola onirica e fantastica, nightmaze, che in italiano è stata tradotta “labirincubo”. In questa vanno a fondersi simultaneamente un “nightmare” (incubo) e un “maze” (labirinto). Si tratta di un nuovo verbo sfuggente e perturbante ideato da uno scrittore che in gioventù, nelle lettere private e nei primi scritti, si firmava proprio Dedalus, nome poi divenuto alias narrativo nei due suoi maggiori romanzi, “Un ritratto dell’artista da giovane” e “Ulisse”.

Joyce è dunque un Dedalo che costruisce dedali verbali, “labirincubi” in cui il lettore può perdersi per poi a volte ritrovarsi. La sua arte verte sulla ricomposizione, nella notte del linguaggio, di linguaggi della notte: idiomi notturni smembrati e rimembrati che si ripresentano sotto ai nostri occhi in tutta la loro persistente evanescenza.