L’ultimo Sonderkommando italiano al Gabinetto di Lettura

25 Novembre 2013

Il pavimento in legno scricchiola ed Enrico Vanzini parla di «binari morti»: è con voce forte e sicura che l’uomo, ospite al Gabinetto di Lettura in piazza Insurrezione, ricorda il viaggio in treno compiuto quasi settant’anni prima. «In alcuni punti le tratte si interrompevano per via dei bombardamenti – spiega – a volte restavamo fermi un giorno intero. Si cercava l’acqua ma i gesti di dono rivolti a noi si sono rivelati poi in realtà di scherno: appena ci avvicinavamo gettavano per terra quel bene prezioso, ridendo. Come ridevano! Dentro quei vagoni dovevamo far tutto, per sporcare siamo ricorsi al legno marcio: il buco che cadeva nel vuoto sottostante del binario ci consentiva un po’ di dignità». Venti giorni dopo il convoglio era arrivato a Monaco di Baviera, venti giorni di forti odori tra la gente ammassata come bestie, mal di testa e caldo, si era ai fini di settembre. «Il mio gruppo venne destinato a una fabbrica che si occupava di intelaiature di carri armati – continua Enrico – al comando c’erano due italiani per cui si potevano fare due chiacchiere». Una giornata intera a saldare sotto gli occhi vigili di tedeschi in borghese, una vita dura che aveva inizio alle sette di mattina e terminava alle sette di sera: per dormire si era soliti ad ammassare più di quindici/venti persone a baracca e destinare loro un pasto composito di una patata e di un pezzetto di pane. «Durante gli allarmi – ricorda Vanzini – ci era consentito uscire dal palazzo e seguire i militari all’interno delle camionette: si andava venti chilometri lontano, in un paese che stava in mezzo a una distesa di campi. La pineta vicino serviva per le tavole, ma in occasione della guerra erano stati fatti dei camminamenti interni, si entrava per questi passaggi, per queste “strade” per evitare di essere visti dai ricognitori americani o russi su in cielo». Una volta che la caserma è stata trovata in fiamme, non era rimasto altro che tentare di giungere al confine austriaco, ma solo di notte senza cartine topografiche «perché la Gestapo in borghese era ovunque». «Raccoglievamo quello che potevamo nelle campagne – patate crude, beni trovati nei campi abbandonati, carote – ma non riuscivamo ad evitare la dissenteria: lo stomaco ormai non era in grado di ricevere più niente e il malcontento serpeggiava tra i ragazzi che avrebbero voluto consegnarsi nella speranza di migliorare le proprie condizioni di vita». Dopo l’angosciante racconto dell’avventura della notte della luna piena, Enrico Vanzini e i suoi amici cercano di tornare alla fabbrica perché «schedati com’erano» in caso di assenza prolungata sarebbero stati catturati dalla Gestapo. «Al comandante tedesco che ci chiese perché fossimo scappati dicemmo la verità – spiega Enrico – e lui continuava a battere i pugni sul tavolo inferocito gridando ‘Nein, nein’, alle quattro avremmo dovuto essere fucilati». Chiusi al gelo in un bunker in attesa della fucilazione riservata ai sabotatori, il testimone e i suoi compagni sentono finalmente arrivare dei passi: «un tenente italiano venne a prenderci, ci disse che eravamo stati graziati ma che saremmo stati separati – continua a raccontare Enrico – io finii a Dachau». Spogliato dagli abiti e disinfettato con «un getto da pompieri» Enrico comincia la sua permanenza a Dachau: il suo abbigliamento consisteva di una giacchettina e di un berrettino simili a quelli di un pigiama e di zoccoli di legno, inadatti al freddo atroce. A distinguerlo dagli altri internati era un timbro sul braccio «che faceva un male incredibile». Storie incredibili ma vere che hanno a che fare con la puzza dei corpi bruciati nei forni crematori, racconti in prima persona reali come Enrico Vanzini presente davanti al pubblico, settant’anni dopo. Ad accompagnarlo Roberto Brumat, il regista che ha raccolto la testimonianza di Enrico nel documentario ‘Dachau. Baracca 8 Numero 123343′ e nel libro pubblicato da Rizzoli a ottobre.

Camilla Bottin

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