Le messi dell’Infinito
16 Luglio 2014Raccontaci il tuo rapporto con Padova, la Città del Santo, che ami oltremisura.
Padova l’ho conosciuta perché ho avuto una lunga storia con una ragazza del posto. E poi altre relazioni. Quindi ho avuto modo di conoscerla giorno/notte. La città per me è una casa. Gli abitanti sono educati nel modo giusto: sono quasi, loro, un anacronismo in un mondo di ideali speciosi. Mi piace mischiarmi alla folla patavina, è un po’ strano per me visto che sono un pochetto asociale; l’arte ha il suo prezzo.
Colei che ti ha scritto la prefazione, Maria Luisa Crosina, è anche una delle protagoniste di uno dei racconti del libro. Come vi siete conosciuti?
Maria Luisa l’ho conosciuta a Riva del Garda. A Trento facevamo parte dello stesso studio bibliografico del cui non citerò il nome.
Ti piace immaginarti nei panni di un cavaliere, Gemone di Velieronero d’Oltremare: quando è nato il desiderio di gesta eroiche?
Non mi piace essere un cavaliere nel senso stretto del termine. Mi avvicino di più allo steampunk; ovvero ho una radice ottocentesca con influenze provenienti da altri periodi. Del cavaliere ho il fatto d’essere ramingo. Le gesta eroiche sono proprie di chi non accetta lo smaltitoio dei tempi correnti: è un abito che mi cade bene.
Il libro “Le messi dell’infinito” si presenta come un organico di pensieri, racconti e suggestioni che hai incontrato nel corso della tua vita: come mai sei passato dalla poesia alla prosa? Con quale dei due generi ti trovi più a tuo agio?
Ho iniziato quattordici anni fa con la poetica. Mesi dopo passai alla prosa. Il primo racconto della silloge è stato il primo pubblicato su rivista letteraria; l’ultimo della raccolta è stato il primo scritto. Non è che ci sia diversità tra le due: le mie poesie sembrano prose e le prose sono madide di poetica. Ma mi trovo meglio con la prosa.
Le messi dell’Infinito
In sospensione tra l’essere un «giardinista», preso dalla smania della Scrittura e delle «belle parole» che usa con un gusto quasi barocco e la concretezza di piccoli tableaux vivants collocabili geograficamente e databili in una certa epoca, infernale quasi, Gemone di Velieronero d’Oltremare ne “Le messi dell’Infinito” (Luca Pensa Editore) segue un percorso di pubblicazione che apparentemente non ha un perché: si passa dai ritrattini d’amore, alla burla delle gesta del passato, al non sense, a suggestioni fantastiche per concludersi con la ripetizione, in un eterno ritorno, della storia della nonna e della nipotina che dà il titolo al romanzo. Gemone vuole essere «unico nella sua unicità», differenziarsi: il modo per richiamare all’attenzione il lettore è quello di creare personaggi “toccata e fuga” che parlano in prima persona (siano essi cavalieri, fattori americani, avventurieri o semplicemente il protagonista in compagnia della sua donna), una – due pagine di impressioni a caldo, dialoghi brevi e a capo, con una continuità e una variabilità che non lasciano spazio all’associazione. Ci sono, all’interno del libro, delle chicche come il racconto “Bianconero”: c’è da sperare che si trasformino in romanzo isolato, così come l’autobiografia accennata in “Da piccolo” può suscitare un movimento di interesse. Ci vorrebbe però una cornice, o quantomeno raggruppare i testi in base agli scorci paesaggistici (Padova – Verona – Sardegna, Troia, Universo Fantastico, America): il suo è «andrivieni», come le notti in cui narra di aver spanto «baci su ogni fulgidezza del tuo cadere», c’è tempo per un po’ di passione ma non per innamorarsi. Per l’amore ci vuole una simbologia ricorrente, dei pur labili collegamenti, le «mani intessute a cingere gli stinchi»: sono testi intrisi di poetica, vanno visti come impronte dell’anima, non come un continuum logico. Si vive l’impressione di «essere raccolto e trebbiato», è una sensazione piacevole ma svanisce presto.
Camilla Bottin